Vincere i “big five” agli Oscar – miglior film, regia, sceneggiatura, attore e attrice protagonisti – è un evento rarissimo, riuscito solo a tre film: Accadde una notte, Il silenzio degli innocenti e Qualcuno volò sul nido del cuculo. Tra questi, il trionfo del film di Miloš Forman, che compie cinquant’anni, appare il più sorprendente. A differenza degli altri due, rappresentativi dei loro generi, Qualcuno volò sul nido del cuculo è una dramedy che usa l’ambientazione psichiatrica per raccontare la ribellione sociale degli anni Sessanta.
Il film è tratto dal romanzo di Ken Kesey del 1962, ispirato all’esperienza dell’autore come infermiere di corsia e alle tensioni contro il conformismo del dopoguerra. L’adattamento compie un cambiamento radicale: sposta il punto di vista di Capo Bromden, narratore del libro, a R.P. McMurphy, interpretato da Jack Nicholson. McMurphy, detenuto che finge malattia mentale per evitare il lavoro carcerario, introduce un’energia caotica tra i pazienti, sfidando l’autoritaria infermiera Ratched, incarnata con inesauribile freddezza da Louise Fletcher.
Nonostante alcune pratiche terapeutiche rappresentate nel film siano ormai superate, l’opera mantiene un’aura di atemporalità: l’ospedale, isolato e regolato rigidamente, potrebbe esistere in epoche diverse senza perdere credibilità. Ed è proprio questa dimensione sospesa che ha permesso al film di conservare un’influenza culturale duratura, rendendolo ancora oggi un simbolo della lotta contro le istituzioni oppressive.
Il finale, fedele al romanzo, è insieme devastante e liberatorio: dopo la lobotomia di McMurphy, il Capo lo soffoca per risparmiargli una vita svuotata e fugge distruggendo il finestrone che l’amico non era riuscito a rompere. Quel gesto incarna il messaggio più semplice e potente del film: tutti possono riconoscersi nella necessità di trovare una vittoria personale anche dentro una sconfitta più grande.
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