Ho recuperato solo di recente il thriller erotico scritto e diretto da Brian De Palma, e riscoprendo quest’opera mi sono ricordata delle ragioni per cui amo il cinema.
La distanza tra Vestito per uccidere la sua fonte d’ispirazione, Psycho di Alfred Hitchcock, è di vent’anni; quella tra Vestito per uccidere e oggi è di quarantacinque. Numeri che sorprendono, perché il sovraccarico sensoriale del raffinato thriller di De Palma – la sua esplicitezza, il sangue, i colori vivaci – appare molto più moderno, così come le interpretazioni, già di stampo naturalistico, ancora poco diffuse nel 1960. Eppure il film resta sorprendentemente retrogrado, intrappolato in idee sulla violenta disforia di genere che rimangono praticamente identiche a quelle che spiegavano il comportamento di Norman Bates nel classico di Hitch.
Non è possibile parlare di Vestito per uccidere senza intaccare in parte il colpo di scena – anche solo citare Psycho rischia di anticiparlo – eppure in tutti i suoi quarant’anni di storia il film non ha mai smesso di suscitare polemiche: è stato definito uno slasher raffinato, un esempio di misoginia maligna e, più recentemente, una delle manifestazioni più evidenti di transfobia sullo schermo. Per i fan di De Palma, resta il suo film più problematico, una provocazione sia voluta sia accidentale, che riflette e sfida le norme culturali dell’epoca. Guardarlo significa oscillare tra attrazione e repulsione, uno stato perfettamente coerente con un film dominato da sdoppiamenti e personaggi in conflitto con se stessi.
Fin dalla prima scena – una rivisitazione quasi pornografica della celebre doccia di Psycho – De Palma gioca sul filo tra desiderio sessuale e violenza. Kate Miller (Angie Dickinson), una casalinga di mezza età, diventa la Janet Leigh di questo scenario: il marito, inconsapevole, si rade mentre lei esplora il proprio corpo in bagno. La fantasia sessuale di Kate, proibita e punibile, evoca il Norman Bates del film di Hitchcock, e presto la realtà trasformerà quella fantasia in violenza concreta.
De Palma costruisce uno dei grandi capolavori della sua carriera durante la visita di Kate al Metropolitan Museum of Art, dove inizia un silenzioso flirt con uno sconosciuto. Nel labirintico spazio delle gallerie, De Palma amplifica il desiderio attraverso relazioni spaziali vertiginose; un paio di guanti diventa un piccolo ma intenso strumento di seduzione e di premonizione. Il rischio di pericolo è sempre presente, e la punizione temuta sotto la doccia si materializza in ascensore, in un crescendo di tensione che ricorda la brutalità di Psycho. La colonna sonora è firmata dal compositore italiano Pino Donaggio che aveva già lavorato per il regista in Carrie – Lo sguardo di Satana, citato sia nella scena d’apertura che nel finale.
De Palma, con la sua consueta audacia, introduce subito una seconda protagonista femminile, Liz Blake (Nancy Allen), specchio di Kate: se Kate è una casalinga sessualmente repressa, Liz è un’escort sicura di sé, ma entrambe restano soggette alla volubilità maschile. Quando Liz scopre il corpo di Kate, il film entra in un giallo teso, in cui lei e il figlio nerd di Kate (Keith Gordon) si trasformano in investigatori improvvisati.
I doppi abbondano: due donne, due guanti, due docce, due bionde che seguono Liz, split-screen e inquadrature a diottria divisa. Il Dr. Elliott e Bobbi (Michael Cane nel suo ruolo più controverso) incarnano la dualità centrale: un terapeuta represso e l’altra una figura materna travestita che agisce secondo i desideri sessuali del medico. La rappresentazione della transizione di genere rimane purtroppo estetizzata e problematica, più evidente oggi che nel 1980.
L’accusa più frequente contro Vestito per uccidere è la misoginia, legata soprattutto all’oggettivazione delle protagoniste. Tuttavia, il film va letto anche come critica ai puritani istinti della società americana: le donne come Kate non possono semplicemente godere di un “bel pomeriggio” senza rischiare ripercussioni. De Palma capovolge così la logica dello slasher, in cui la donna sessualmente attiva meritava la morte: qui, la condanna deriva da una cultura che criminalizza la sessualità femminile, non dai comportamenti delle protagoniste.









